martedì 17 giugno 2014

Monellerie intorno alle vecchie mura

Le vecchie mura, per noi ragazzi di un tempo, avevano un richiamo speciale. Esse ci ricordavano gli spalti di imprendibili fortezze; e, ubriacati come eravamo dalle letture del buon Salgari, vi trovavamo quel tanto di favoloso, che poi finì per sfociare, per evoluzione, nel più puro romanticismo.
Ed ecco che, a frotte, noi tutti le percorrevamo, il più delle volte, di corsa da barriera a barriera ed altre volte nei sottostanti ripiani che noi chiamavamo: sätmùra.
Questi erano più avventurosi (in un certo senso) perché pieni di incognite e di quei subiti brividi procurati da indistinti rumori, il più delle volte prodotti da degli enormi biscioni, che scivolavano tra le erbacce, tenendo la testa dritta.
Fatti grandicelli, allorché imparammo a maneggiare le fionde di elastico – dette sfrämbel -, con quelle assumemmo il nuovo ruolo di cacciatori. E qui si incominciò la caccia piccola che era fatta alle lucertole. Le sorprendevamo mentre esse di inebriavano al sole e, rese sospette, facevano corsette che sembravano guizzi, e, palpitanti, avevano arresti di cui si approfittava per far partire il colpo. Si mirava un poco e… plaffete, il sasso scattava ed il più delle volte le povere bestiole cadevano colpite riverse al suolo.
La caccia grossa, invece, era data alle bisce. Noi ci appostavamo e, pazienti, attendavamo che sporgessero la testolina dalle fessure poste tra i mattoni, e lì ancora un colpo, e, se colpite, cominciavano fra gli spasmi della morte, a dar sobbalzi e lentamente a spira a spira uscivano per cadere finalmente a terra.
Che trofeo per noi! E che senso nel raccattarle! Poi le legavamo con un pezzo di spago e… via ai lavatoi a spaventare le lavandaie. Queste si schermivano, ci urlavano parolacce, e a tali invettive si filava per evitare il peggio.
Le biancherie stese a sciorinare al sole profumavano l’aria, fra il frinire delle cicale ed il trillare dei grilli e noi, beati e palpitanti, si seguitava la marcia nella nostra pampa, pronti a dare la scalata agli Spalti di Vera Cruz. Quegli spalti non erano altro che il baluardo di San Pietro. Ad uno ad uno, in fila indiana, si cominciava la salita, aggrappandoci con le mani e mettendo i piedi in piccole sbrecciature, che noi conoscevamo ad una ad una.
Il primo a raggiungere la meta doveva avvertire i compagni – Maràja, a gh’è al padlòt – in tal caso si aspettava pazienti che si allontanasse e poi su per l’irruzione.
Come giunti, si adocchiavano i frondosi platani e si lanciavano sassi per smarrire o colpire cinciallegre e passerotti e qualcuno, più amante del rimbombo, finiva per tirarne alla baracchina dei gelati della ditta Testi. Poi al grido – A vìn i spròcch – via di corsa fino a San Francesco, e lì giunti, giù sassi sui lavatoi; urla, strepiti, grida: – Brótt mäster – Lazarón – Pèz da galéra – e noi via ancora fino alle Grazie.
Qui giunti, ancora, si lanciavano sassi sugli ippocastani per la raccolta dei bei marroni selvatici, di cui ce ne servivamo per farne collane, e poi ancora di qua e di là, colpendoci, urtandoci e facendo lo sgambetto al più piccolo od al più tonto della compagnia.
Si arrivava a casa per la merenda con il cuore in gola, anelanti, sudati, con gli abiti ridotti in uno stato compassionevole, e qualche volta con la testa rotta… Ramanzine, scapaccioni, e poi… poi si ritornava fuori!
Ricordo che spesso facevamo delle scorribande anche in città. Si entrava in San Francesco e prima tappa era la fontana posta sotto la travata: tutti volevamo bere al contempo e, chi teneva il beccuccio, allontanava gli altri con getti d’acqua: parapiglia, calci, busse, poi ci disperdevamo alla voce grossa del calzolaio, che da tempo vi si era sistemato con il suo deschetto.
Giunti ai Tre Re, se si incontrava Sivirón, erano dolori e più per lui, poveraccio! Lo investivamo come una muta di cani: – Sivirón, dàm al mée bugnìn – Vàt a léva – Ciàppa cal póndegh – e lui, spazientito, cercava di rompere il cerchio nel quale noi lo tenevamo costretto, e giù con il bastone; e se arrivava erano guai, ma noi, svelti come le cavallette, si sgusciava lontano in cerca di ben altro.
Ed ecco qualcuno gridare: – A gh’è Gigiàtt, a gh’è Gigiàtt –. Gigiàtt era un pazzoide che, al bel tempo di una sua piccola eredità, aveva rimpinzato di pasta e cioccolata un graziosissimo somarello, e che ora, di nuovo in bolletta, si irritava ai nostri: – I én finì, i én finì – alludendo alla nuova miseria.
Poi si cercava l’Adelaidéna, che trascinava il marito, un misero sciancato, su di un biroccino. – Dàgh a l’élta, dai Dalaidéna, dàgh a l’élta – e alle volte lei, presa da frenesia, di colpo abbandonava le stanghe e lui rotolava a terra, lanciando tali moccoli da farci scappare via.
Guai se si incontrava l’ubriacone Salametti. Subito gli facevamo il “ri-ri” d’intorno ed egli, barcollando sulle malferme gambe, usciva con certe roventi battute, come ad esempio – Guérda l’Italia, (e alludendo a noi) tutti – e lasciamola lì; poi, nel rigiro che faceva su se stesso, finiva per cadere a gambe levate e noi… via di corsa.
Giovanni e Màgnacädegh, che erano due caratteristici giornalai, ci evitavano, e così pure Didón, uno scemo misogino che aveva paura delle donne e che purtroppo doveva trascinare la vita tra le beffe atroci delle più note lavandaie.
Finalmente, sull’avemaria, uscivano di corsa i lampionai sciamando sulla città, e svelti come le trottole, accendevano le farfalle dei becchi a gas. I bottiglieri esponevano il loro lampioncino con la scritta “Vino” ed erano dolori perché noi, con le nostre fionde, raramente resistevamo a tale richiamo e… plaff, era fatta. Si udiva il fracasso dei vetri rotti scroscianti a terra, lo sbattere di una porta, l’urlo del padrone che si inveleniva e noi… via di corsa fino a casa frementi e tremanti, quasi a nasconderci per le malefatte da farci perdonare.
Vecchie mura! Vecchia Modena! Ora quasi vecchi lo siamo diventati noi pure, ma nel nostro cuore l’eco lontana ha spesso dei richiami e noi li ascoltiamo con nostalgico rimpianto.
Il vivere sulla strada: fu bene? fu male? E chi lo sa! Certo è che quelli che lo provarono si sentirono lievitare l’anima in piena libertà, e per quei tanti che poi conobbero disillusioni e tristezze non restò che ricordarsene caramente, e con puro senso di sana poesia.
Pizzo da Ganaceto.

Gazzetta dell’Emilia, 1945.

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