Monellerie
intorno alle vecchie mura
Le vecchie mura, per noi
ragazzi di un tempo, avevano un richiamo speciale. Esse ci ricordavano gli
spalti di imprendibili fortezze; e, ubriacati come eravamo dalle letture del
buon Salgari, vi trovavamo quel tanto di favoloso, che poi finì per sfociare,
per evoluzione, nel più puro romanticismo.
Ed ecco che, a frotte, noi
tutti le percorrevamo, il più delle volte, di corsa da barriera a barriera ed
altre volte nei sottostanti ripiani che noi chiamavamo: sätmùra.
Questi erano più avventurosi
(in un certo senso) perché pieni di incognite e di quei subiti brividi
procurati da indistinti rumori, il più delle volte prodotti da degli enormi
biscioni, che scivolavano tra le erbacce, tenendo la testa dritta.
Fatti grandicelli, allorché
imparammo a maneggiare le fionde di elastico – dette sfrämbel -, con quelle assumemmo il nuovo ruolo di cacciatori. E
qui si incominciò la caccia piccola che era fatta alle lucertole. Le
sorprendevamo mentre esse di inebriavano al sole e, rese sospette, facevano
corsette che sembravano guizzi, e, palpitanti, avevano arresti di cui si
approfittava per far partire il colpo. Si mirava un poco e… plaffete, il sasso
scattava ed il più delle volte le povere bestiole cadevano colpite riverse al
suolo.
La caccia grossa, invece,
era data alle bisce. Noi ci appostavamo e, pazienti, attendavamo che
sporgessero la testolina dalle fessure poste tra i mattoni, e lì ancora un
colpo, e, se colpite, cominciavano fra gli spasmi della morte, a dar sobbalzi e
lentamente a spira a spira uscivano per cadere finalmente a terra.
Che trofeo per noi! E che
senso nel raccattarle! Poi le legavamo con un pezzo di spago e… via ai lavatoi
a spaventare le lavandaie. Queste si schermivano, ci urlavano parolacce, e a
tali invettive si filava per evitare il peggio.
Le biancherie stese a
sciorinare al sole profumavano l’aria, fra il frinire delle cicale ed il
trillare dei grilli e noi, beati e palpitanti, si seguitava la marcia nella
nostra pampa, pronti a dare la scalata agli Spalti di Vera Cruz. Quegli spalti
non erano altro che il baluardo di San Pietro. Ad uno ad uno, in fila indiana,
si cominciava la salita, aggrappandoci con le mani e mettendo i piedi in
piccole sbrecciature, che noi conoscevamo ad una ad una.
Il primo a raggiungere la
meta doveva avvertire i compagni – Maràja,
a gh’è al padlòt – in tal caso si aspettava pazienti che si allontanasse e
poi su per l’irruzione.
Come giunti, si adocchiavano
i frondosi platani e si lanciavano sassi per smarrire o colpire cinciallegre e passerotti
e qualcuno, più amante del rimbombo, finiva per tirarne alla baracchina dei
gelati della ditta Testi. Poi al grido – A
vìn i spròcch – via di corsa fino a San Francesco, e lì giunti, giù sassi
sui lavatoi; urla, strepiti, grida: –
Brótt mäster – Lazarón – Pèz da galéra – e noi via ancora fino alle Grazie.
Qui giunti, ancora, si
lanciavano sassi sugli ippocastani per la raccolta dei bei marroni selvatici,
di cui ce ne servivamo per farne collane, e poi ancora di qua e di là,
colpendoci, urtandoci e facendo lo sgambetto al più piccolo od al più tonto
della compagnia.
Si arrivava a casa per la
merenda con il cuore in gola, anelanti, sudati, con gli abiti ridotti in uno
stato compassionevole, e qualche volta con la testa rotta… Ramanzine,
scapaccioni, e poi… poi si ritornava fuori!
Ricordo che spesso facevamo
delle scorribande anche in città. Si entrava in San Francesco e prima tappa era
la fontana posta sotto la travata: tutti volevamo bere al contempo e, chi
teneva il beccuccio, allontanava gli altri con getti d’acqua: parapiglia,
calci, busse, poi ci disperdevamo alla voce grossa del calzolaio, che da tempo
vi si era sistemato con il suo deschetto.
Giunti ai Tre Re, se si
incontrava Sivirón, erano dolori e più per lui, poveraccio! Lo investivamo come
una muta di cani: – Sivirón, dàm al mée
bugnìn – Vàt a léva – Ciàppa cal póndegh – e lui, spazientito, cercava di
rompere il cerchio nel quale noi lo tenevamo costretto, e giù con il bastone; e
se arrivava erano guai, ma noi, svelti come le cavallette, si sgusciava lontano
in cerca di ben altro.
Ed ecco qualcuno gridare: – A gh’è Gigiàtt, a gh’è Gigiàtt –.
Gigiàtt era un pazzoide che, al bel tempo di una sua piccola eredità, aveva
rimpinzato di pasta e cioccolata un graziosissimo somarello, e che ora, di nuovo
in bolletta, si irritava ai nostri: – I
én finì, i én finì – alludendo alla nuova miseria.
Poi si cercava l’Adelaidéna,
che trascinava il marito, un misero sciancato, su di un biroccino. – Dàgh a l’élta, dai Dalaidéna, dàgh a l’élta
– e alle volte lei, presa da frenesia, di colpo abbandonava le stanghe e lui
rotolava a terra, lanciando tali moccoli da farci scappare via.
Guai se si incontrava
l’ubriacone Salametti. Subito gli facevamo il “ri-ri” d’intorno ed egli,
barcollando sulle malferme gambe, usciva con certe roventi battute, come ad
esempio – Guérda l’Italia, (e
alludendo a noi) tutti – e lasciamola
lì; poi, nel rigiro che faceva su se stesso, finiva per cadere a gambe levate e
noi… via di corsa.
Giovanni e Màgnacädegh, che
erano due caratteristici giornalai, ci evitavano, e così pure Didón, uno scemo
misogino che aveva paura delle donne e che purtroppo doveva trascinare la vita
tra le beffe atroci delle più note lavandaie.
Finalmente, sull’avemaria,
uscivano di corsa i lampionai sciamando sulla città, e svelti come le trottole,
accendevano le farfalle dei becchi a gas. I bottiglieri esponevano il loro
lampioncino con la scritta “Vino” ed erano dolori perché noi, con le nostre
fionde, raramente resistevamo a tale richiamo e… plaff, era fatta. Si udiva il
fracasso dei vetri rotti scroscianti a terra, lo sbattere di una porta, l’urlo
del padrone che si inveleniva e noi… via di corsa fino a casa frementi e
tremanti, quasi a nasconderci per le malefatte da farci perdonare.
Vecchie mura! Vecchia
Modena! Ora quasi vecchi lo siamo diventati noi pure, ma nel nostro cuore l’eco
lontana ha spesso dei richiami e noi li ascoltiamo con nostalgico rimpianto.
Il vivere sulla strada: fu
bene? fu male? E chi lo sa! Certo è che quelli che lo provarono si sentirono
lievitare l’anima in piena libertà, e per quei tanti che poi conobbero
disillusioni e tristezze non restò che ricordarsene caramente, e con puro senso
di sana poesia.
Pizzo da Ganaceto.
Gazzetta dell’Emilia, 1945.
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