GREGORIO AGNINI
Primo presidente della Consulta Nazionale, 25 settembre 1945.
Primi passi (tratto da Modena 1859-1989, di Gianni Azzi).
Gregorio Agnini nacque a Finale Emilia il 27
Settembre 1856. Di famiglia agiata, dalle tradizioni liberali e patriottiche,
istruito, di bella e piacevole presenza, oratore facondo, aveva tutti i
requisiti per riuscire e riuscì, soprattutto perché sostenuto da una sensibilità
straordinaria verso le miserie dei troppi diseredati, e dalla ferma convinzione
ch’era suo dovere cercare di aiutare e sollevare le classi più bisognose.
Bertesi veniva da una famiglia povera e
numerosa. Nato a Carpi nel 1851 dovette ben presto interrompere gli studi e
trasferirsi con la famiglia a Bologna, dove cominciò a lavorare da cameriere.
Dopo poco tempo tuttavia riuscì ad avere per conto suo un Caffè, che però fu
distrutto da un incendio a causa di uno scoppio di gas. Aprì allora una bottega
dove vendeva liquori fatti da lui stesso. Ma anche la bottega dovette essere
chiusa in seguito all’entrata in vigore della legge che proibiva la fabbricazione
“privata” dei liquori.
Dopo qualche altra esperienza bolognese,
Bertesi accolse l’invito di uno zio che gli offriva lavoro a Carpi.
L’esperienza Bologna sembrava così terminata,
ma per Bertesi, giovane dall’intelligenza pronta e vivace, pieno di curiosità,
rimase un’esperienza impareggiabile, in modo particolare per la sua formazione
politica. A Bologna infatti egli aveva potuto approfittare di un forte ambiente
repubblicano che lo avvinse, e dedicarsi a letture che risulteranno fondamentali
per la sua preparazione.
A Carpi Bertesi restò per cinque anni a vendere
salumi e castagnacci per lo zio. Decise quindi di ritentare la sorte da solo e
aprì una bottega di frutta. Da fruttivendolo diventò “fornaio”, appellativo che
gli resterà per tutta la vita, anche perché il suo forno ebbe grande successo.
Raggiunta ormai una certa stabilità economica, poté finalmente dedicarsi alla grande
passione della sua vita: la politica. Ed ecco che nel 1889 lo troviamo fondare
a Carpi, assieme a Ferruccio Rizzatti il giornale La Luce e iniziare attraverso le colonne di quel periodico la sua
battaglia “democratica” contro i clericali e moderati di Carpi, contro tutto il
mondo di ingiustizie piccole e grandi che lo circondava. E in breve diventò l’anima
e la mente del socialismo carpigiano.
Si potrà qui obiettare che Agnini e Bertesi
venivano dalla Provincia e che in Provincia soprattutto svolsero la loro
azione; ed è verissimo. Ma, come si vedrà, il socialismo modenese nacque e si
sviluppò appunto nella bassa provincia attraverso, come riconosceva il Prefetto,
la formazione di cooperative, e si affermò più tardi per mezzo delle elezioni
politiche, costringendo la Città a muoversi.
Le prime agitazioni di braccianti della
provincia di Modena ebbero luogo nel mirandolese verso la primavera del 1882.
Quasi certamente furono influenzate da quelle avvenute nel mantovano (il comune
di Mirandola confina con la provincia di Mantova), dove però i braccianti erano
già molto meglio organizzati64.
Sembra che i capi squadra più attivi facessero
opera di persuasione per convincere i braccianti a smettere di lavorare e di
essere solidali con quelli in sciopero.
Il Diritto Cattolico così riportò la notizia (5
Maggio 1882): “Lo sciopero scoppiato lunedì mattina nelle valli sermidesi fu una
vera pagliacciata” … “i caporioni scioperanti venivano con il loro codazzo
nelle campagne, dove ferveva il lavoro, e ordinavano bruscamente ai lavoratori
che tenessero loro dietro… Questa è una vera violazione e voglio sperare che si
procederà a norma di Legge”.
Lo sciopero non ebbe ripercussioni immediate e
rappresentò più che altro un episodio isolato; ma il grido pane e lavoro aveva ormai cominciato a farsi sentire seriamente in
quelle valli assolate, anche se bisognerà attendere ancora qualche anno prima
che quel grido fattosi più forte e minaccioso ritorni a riecheggiare e a
dilagare un po’ ovunque nelle campagne della bassa modenese.
Nel marzo del 1885 furono di nuovo i
braccianti (agricoli e terrazzieri) di Mirandola e precisamente quelli delle
frazioni di Gavello, di Tramuschio e di Quarantoli che si raccolsero davanti al
Municipio del Capoluogo per chiedere pane e lavoro.
Ma ecco finalmente la primavera del 1886. Nel
mese di maggio di quell’anno i braccianti di Finale Emilia scesero in sciopero
per “non volersi assoggettare alle pretese” dell’imprenditore Bellini, il quale
aveva preso i lavori in subappalto dall’impresa Laschi di Verona, ma si rifiutava
di mantenere il salario che i braccianti avevano concordato con essa.
Questo sistema degli appalti e sub-appalti
cominciava a dimostrarsi sempre più inefficiente e non certo il più adatto a
favorire le nuove esigenze dei braccianti.
Gregorio Agnini, che già da tempo stava
pensando di porre un rimedio a un male che minacciava di diventare sempre più
grande, proprio nel mezzo dell'agitazione decise di rompere gli indugi e il 1°
Aprile 1886 costituì a Finale Emilia la prima cooperativa di lavoro del modenese
che prese il nome di “Associazione degli operai braccianti del Comune di Finale
dell’Emilia” (Art. 1 dello statuto).
Lo scopo dell’Associazione era chiaro e
preciso: “Essa”, dice l’art. 2 dello statuto, “si propone specialmente la
formazione di un fondo sociale che le permetta di assumere per conto proprio
lavori pubblici e privati. Con questo mezzo gli operai ad essa aderenti pensano
di fare il primo passo nella via della loro emancipazione perché sottratto il lavoro da ogni dipendenza e assicurato al lavoratore l’intero frutto delle sue
fatiche, l’associazione offrirà ad essi il modo di istruirsi, di educarsi e di
togliersi dallo stato di miseria e soggezione in cui oggi trovansi”. “A tale
scopo”, prosegue l’art. 2, “la società si propone anche di promuovere la
fondazione e di aiutare lo sviluppo d’Istituti di mutuo soccorso, di previdenza,
di cooperazione di credito, nonché di qualunque altro che si riconosca atto al
miglioramento morale ed economico delle classi lavoratrici”. Il primo statuto
dei 1886 aveva in questo art. 2 una dichiarazione chiarificatrice che scomparirà
poi in seguito. Diceva testualmente: “L’associazione dichiara di non occuparsi
di politica ed escludere ogni questione ad essa attinente dalle sue
deliberazioni”. Evidentemente Agnini si preoccupava, in un momento tanto
delicato, di non offrire alle Autorità di P.S. dei pretesti per sciogliere
l’Associazione, ancor prima che fosse in grado di svolgere l’opera che si era
proposta.
Il Prefetto di Modena ne diede notizia al
Ministero dell’Interno in questi termini: “Nemmeno riguardo alle società
operaie vi fu novità, se, se ne eccettui una, vale a dire la costituzione in
Finale di una Società di braccianti, nella quale vennero arruolati tutti gli
operai giornalieri di quel luogo”. Faceva poi seguire questi commenti: “Fu
questa l’opera di certo Gregorio Agnini, industriale e che ha fatto studi d’ingegnere
e dimorò qualche tempo, a quanto pare, nel Belgio. Egli professa principi avanzati,
ed è poi spinto dal desiderio di poggiare in alto e di farsi una certa notorietà.
Benché la società sorgesse sotto il colore del mutuo soccorso, ne fosse
esplicitamente bandita la politica, e benché anche non si occupi punto di
alcuna disputa dottrinaria sul socialismo e di alcuna manifestazione politica,
essa tende però nel fatto ad introdurre alcune delle pratiche favorite del
socialismo. Per la solidarietà stabilita fra tutti i membri della società, i
capi di essa o il capo decide se e quando debbano lavorare e imporre agli
appaltatori il numero degli operai, siano essi abili o no, ovvero richiesti
dalla natura del lavoro... Fissa nel lavoro a cottimo il minimo del ricavato
giornaliero del lavoro, che rappresenta perciò il prodotto del lavoro dei meno
abili, e questo ragguaglia alla mercede che ragionevolmente può sperare un
operaio abile ed attivo, interviene in ogni disputa, ed impone la cessazione
del lavoro”65.
Intanto l’Associazione fondata da Agnini si trovava
già in lotta con l’impresa Bellini per le ragioni che si è visto.
Lo stesso Agnini descrisse gli avvenimenti in
una corrispondenza inviata al giornale “Il Naviglio”: “Dinanzi a certi
inqualificabili fatti” cominciava Agnini, “la coscienza si rivolta e sfugge un
grido di indignazione che vorrebbe essere potente da sollevare nella pubblica
opinione unanime protesta”.
Secondo Agnini era “notorio come” i braccianti finalesi
“addetti ai lavori del nuovo argine cavamento” assunto dall’impresa Laschi e
poscia ceduto all'impresa Bellini, “si unissero in sciopero per non volersi assoggettare
alle pretese dell'appaltatore che imponeva agli operai un ingiustificato
ribasso del salario”. “Era pure noto”, continuava Agnini, che l’impresa, “nella
speranza di far pressione sugli scioperanti e in quella di far nascere
disordini che provocassero arresti ed in conseguenza lo scioglimento dell’Associazione,
fece venire un centinaio di braccianti crumiri, i quali però dopo cinque giorni
partirono, dopo avere dichiarato che erano stati condotti con inganno essendosi
ad essi taciuta la verità”.
A questo punto affermava ancora la
corrispondenza, “l’impresa, visto fallire questo tentativo, si appigliò a più
sicuro mezzo; fece assegnamento sulla forza coercitiva della fame e sospese i
lavori”, mentre da parte sua “il Genio Civile appoggiò l’impresa presso il
Ministero dei Lavori Pubblici per ottenere una proroga sul termine di scadenza
dei lavori affermando che le condizioni imposte dagli operai erano esorbitanti ed
inaccettabili”. “Vi è dell’assurdo in tutto ciò”, commentava Agnini che
spiegava: “Gli operai domandavano che venisse mantenuto il salario stabilito
dieci giorni prima in presenza delle autorità”. “Era evidente che” insisteva
Agnini “gli imprenditori avevano ceduto perché non vi erano in quel memento
molti operai nei confronti del lavoro in corso e da portare a termine. Ma
quando la concessione fatta di tre centesimi in più al metro cubo di terra
trasportata avrebbe giustificato altre richieste e rotto un principio che si
sarebbe steso negli altri Comuni del Comprensorio dei lavori, hanno disdetto
l’impegno e chiamato i crumiri”.
Per finire, Agnini metteva in evidenza quanto
prendeva uno di quei braccianti e il lavoro che doveva fare e dichiarava: “Il
salario giornaliero dell’ultima settimana di lavoro oscillava dalle 0,96
centesimi alle 1,20 e dalle 1,40 alle 1,60 a seconda della qualità del terreno
e della robustezza fisica dell’operaio”; e per quale lavoro? per “lo scavo, il
carico sulla cariola ed il trasporto dai 3 ai 4 metri cubi di tetra al giorno,
percorrendo, per rampe ripide, dai 15 ai 25 chilometri ogni giorno, sotto la
sferza del sole e del caldo”66.
Il Prefetto, nella già citata relazione,
commentò in modo un po’ diverso l’atteggiamento dei braccianti e scrisse al
Ministero: “Se si lavora è raro il caso che passino dei giorni senza nuove
pretese che recano con sé la cessazione del lavoro, e se si resiste a questa cessazione
di lavoro è difficile che non si accampino lamenti perché si lasciano morire di
fame gli operai. Se poi si ricorre ad operai d’altri luoghi, accorte lusinghe e
caute minacce fanno cessare la concorrenza”. Passando poi a parlare del capo
dell’organizzazione il Prefetto dichiaro con solennità: “Il capo di questa società,
l'Agnini, è proprio il tipo descritto dal principe di Bismarch. Egli infatti
non dissimula che vedrebbe con gioia l’opportunità di essere arrestato e di
diventare l’eroe di uno di quei processi come quello che nel settembre ora
scorso ebbe il suo svolgimento a Mantova, e che fu forse una cagione predisponente
alla impresa che l’Agnini si è assunta. Per questa stessa ragione e perché è
mancata l’occasione di qualche fatto di carattere netto e spiccato l’Agnini è
tutt’ora libero, ed aspetta la palma del
martirio, benché parecchi processi siano in corso per gli scioperi, per le
minacce e per qualche singolare fatto di violenza, a cui questa condizione di
cose ha dato luogo”.
Infine il Prefetto con occhio chiaroveggente
rassicurava il Ministero che “nel fondo l’ambiente di questi luoghi si presta
poco a lasciar vivere per lungo tempo questi organismi ed io non dubito che la
vita di questa società non sarà di lunga durata, anche se non venga ad
affrettarne la morte qualche atto d’autorità”67.
Intanto dopo che i “crumiri” se ne furono
ritornati ai loro paesi nel Veneto o perché, come diceva Agnini, avevano
compreso d’essere stati imbrogliati, o perché, come sostenevano gli altri, vi
furono persuasi da modi meno civili, ma assai più convincenti, quali le minacce
dei braccianti di Finale, la situazione divenne sempre più tesa.
Ai primi di giugno, oltre 800 braccianti,
provenienti anche dalle frazioni, si recarono davanti al Municipio al grido di
pane e lavoro. Intervennero i carabinieri, intervenne anche il delegato di P.S.
per cercare di portare la calma, ma non ebbero successo. Fu invitato quindi il
Presidente della Associazione dei Braccianti, Agnini, il quale riuscì a
convincere i dimostranti a sciogliersi e a tornare alle loro case, assicurando
che le Autorità avrebbero tenuto in considerazione le loro richieste.
Ed ecco infatti che alcuni giorni dopo l’impresa
Bellini fu costretta a dar inizio ai lavori più urgenti e accettare l’aumento
del salario già accordato in precedenza68.
La battaglia era così terminata con la vittoria
della Associazione braccianti; ma i giornali conservatori “Il Cittadino” e “Il
Diritto Cattolico” accusarono l’Autorità di Finale di non aver saputo reagire
con l’energia necessaria e di avere in tal modo favorite eventuali, future
agitazioni anche in altri comuni.
Fu Cercato perciò un capro espiatorio e fu
facile trovarlo nella persona di Gregorio Agnini, che venne così accusato e
denunciato del reato previsto dagli articoli 386, 387 del C.P. per avere, nell’aprile
del 1886 a Finale Emilia, nella sua qualità di Presidente dell’Associazione braccianti,
istigato gli operai appartenenti a detta Associazione ed impiegati nei lavori di
immissione del Panaro in cavamento, a mettersi, sibbene senza ragionevole causa,
in sciopero onde costringere l’appaltatore ad aumentare il salario (mercede)
all’operaio; adoprandosi altresì, sia direttamente che indirettamente, come
istigatore, ad allontanare dal lavoro altri operai provenienti da altri comuni
e provincie, somministrando ai detti lavoratori l’occorrente per il rimpatrio,
all’evidente scopo di mettere in imbarazzo l’appaltatore dell’impresa ad
ottenere da lui delle corresponsioni superiori al dovuto”69.
II processo a carico d’Agnini si svolse a
Modena nei giorni 20 e 21 Novembre 1886.
Non ne venne fuori nulla di nuovo, eccetto che
i testimoni, anche quelli per l’accusa, trovarono più o meno parole d’elogio
per l’Agnini. Perfino l’Arciprete di Finale Emilia, don Luigi Grossi ebbe “parole
d’encomio” per l’imputato e dichiarò che Agnini si rivolgeva anche a lui per
soccorrere gli infelici70.
A difendere Agnini accorse “con piacere” l’amico
Avv. Marverti, ed il Prof. Giuseppe Ceneri di Bologna, avvocato molto famoso in
quegli anni, e sempre presente in processi del genere.
Le arringhe del Ceneri sono sempre di notevole
interesse e rivelano un uomo dottissimo, che alla grande cultura univa
eccezionali qualità di cuore e uno spirito sempre acuto, spesso pungente71.
A questo processo per esempio dopo avere
distrutto punto per punto le accuse del P.M., insistendo sul fatto che Agnini
veniva accusato di istigazione allo sciopero per il semplice motivo che era il
presidente dell’Associazione, il Ceneri uscì con il racconto d’un episodio
personale, seguito dalla solita battuta castigatrice.
“Nel 1868”, disse il Ceneri, “accadde in
Bologna un grave sciopero” (“allora la temperatura politica in Bologna era
assai elevata”). “L’autorità impotente a farlo cessare ebbe allora la degnazione
di ricorrere alla direzione della Società democratica. Fu tenuto un meeting e
gli scioperanti ripresero il lavoro. Quando giorni dopo, Ceneri, Filopanti, e Caldesi
(i componenti la Direzione, n.d.r.) erano arrestati perché si argomentava che,
avendo avuto la virtù di sciogliere, dovevano pure aver avuto quella di legare.
Incerti se dovevano mandarli alle Assise o al Tribunale fecero cader loro
addosso un’amnistia che non si può rifiutare”72.
Il Prof. Ceneri concluse poi la sua arringa
affermando di vedere purtroppo nell’accusa contro l’Agnini “l’orma della
polizia, nemica del sodalizio operaio di Finale, non perché si trattasse di
reato, ma perché nelle aule poliziesche spira qualcosa di contrario al
proletariato, che mira a migliorare le proprie condizioni”. Disse, infine, di
deplorare che un magistrato avesse potuto “tener mano alle cospirazioni della
polizia”73.
Agnini non poté ottenere a quel processo “la
palma del martirio”, e fu assolto “per inesistenza di reato”.
Intanto però, scrisse “Il Panaro” “noi abbiamo
veduto un cittadino onorato, un giovane pieno di cuore, che, spinto da nobilissimo
sentimento si occupa, nei limiti della legge, a migliorare le condizioni delle classi
operaie, che già accorse volontario alla carità, tra i colerosi di Palermo,
trascinato sul banco dei malfattori”74.
Ma non passò molto tempo dalla conclusione del
processo e l’Associazione braccianti di Finale si trovò impegnata in una lotta
ancora più dura.
È evidente che gli imprenditori, vedendo in
tali associazioni delle concorrenti pericolose, cercavano di eliminarle prima
che diventassero troppo forti.
Ai primi di marzo del 1887 Agnini in una
corrispondenza al “Naviglio” affermava: “La temperatura di Finale è stata in
questa settimana assai elevata: il fermento che a cominciare da martedì si
manifestò nella nostra popolazione ed in particolare fra i braccianti, crebbe
sino a raggiungere ieri il colmo e ciò per merito dei soliti appaltatori che
pur di raggiungere il loro scopo non arretrano dinnanzi a qualsiasi men che onesto
tentativo e per merito anche delle solite Autorità Governative” dei loro agenti
i quali hanno rinnovato le gesta dei famosi dragoni di Francesco IV di buona
memoria…”.
Secondo il racconto dello stesso Agnini era avvenuto
che l’Associazione braccianti fin dal dicembre 1886 aveva cercato un accordo
con l’impresa Bertelli di Modena. L’impresa offriva 29 cent. “per metro secco compresavi
la spesa di costruzione (quindi cent. 27 netti)”; l'Associazione ne chiedeva
32. Ogni tentativo d’accordo andò fallito.
L’impresa cercò di far venire degli operai dai
paesi vicini, e dopo varii tentativi riuscì a far giungere a Finale nella notte
del 1° marzo “due squadre di operai forestieri” (del Dogaro). La voce si sparse
subito in paese e la mattina dopo gruppi di curiosi si recarono sul luogo dei lavori
“che dista varii chilometri” per vedere se fosse vero. Vicino al luogo del
lavoro essi vi trovarono delle “sbarre e dei cartelli che proibivano il
passaggio”, ed ebbero anche la sorpresa di trovarvi “un forte nerbo di truppa
che aveva l’ordine di far fuoco su chiunque tentasse di avvicinarsi”.
Nei due giorni successivi i braccianti di
Finale si accalcarono sempre più numerosi alle “sbarre”, fin tanto che la
mattina del 3 Marzo “quei del Dogaro” sembravano decisi a partire, ma furono
trattenuti del “vice brigadiere” che li minacciò di carcere e con le baionette
puntate impose ai finalesi di allontanarsi. “Simili austriacate” scriveva
Agnini “e la presenza dei forestieri aveva talmente eccitato gli animi che era
inevitabile lo scoppio”. E lo scoppio avvenne il 5 Marzo quando, verso
mezzogiorno, si sparse in Finale la notizia che altri operai di Concordia, S.
Martino e Motta “fiancheggiati da carabinieri, muovevano attraverso le valli
alla volta del lavoro”.
I braccianti di Finale allora cercarono di
correre ai ripari. “In cinquecento o seicento armati di badile, seguiti da un
centinaio di cittadini e donne”, corsero ad incontrare i forestieri “con
l’intenzione di impedire che si congiungessero agli altri”. Soltanto una trentina
però giunse in tempo e cercò disperatamente di opporsi che i forestieri traghettassero
il fiume; “ma i calci dei fucili, le baionette, ebbero il sopravvento”.
Arrivò intanto il grosso dei braccianti col
seguito di donne e cittadini. Erano così numerosi che “coprivano tutto l’argine
che fronteggiava il lavoro”. Ciò che successe dopo rientra nelle pagine
gloriose della storia del bracciantato.
Ecco le parole di Agnini: “Il temporale
rumoreggiava, le nubi pregne di elettricità stavano per scaricarsi, quando gli
operai forestieri ebbero la buona idea di mandare degli evviva all’indirizzo
dei nostri – e da evviva a evviva si rasserenarono i volti, si quietarono gli
animi”. Due ore dopo gli operai forestieri frammischiati ai nostri arrivavano a
Finale e la sera stessa “percorrevano il paese cantando e suonando”75.
All’esposizione dei fatti Agnini fece seguire alcuni
commenti. Anzitutto elogiava il tenente dei Carabinieri, il quale quando vide
che i braccianti fraternizzavano fra loro, ebbe il buon senso di far partire la
truppa per Finale, poi scriveva: “Se la soluzione non fu dolorosa, se disgrazie
non si hanno da lamentare non è certo in grazia vostra nevvero, o signori dell’impresa
Bertelli, nevvero o Prefetto Winspeare e rispettivi agenti?”.
Passava poi ad esaminare la condotta
dell'impresa Bertelli la quale, mentre si era rifiutata di dare più di 27 cent.
per metro cubo ai braccianti di Finale, aveva poi concesso 32 cent. a quelli del
Dogaro; mentre si era rifiutata di assicurare a quelli di Finale un minimo di
1,50 per giorno, agli operai di Concordia aveva assicurato L. 2, e agli operai
di Camposanto perfino 2,50, promettendo 4 lire al giorno per il caporale se li
avesse condotti.
Come spiegare questo atteggiamento? In modo
molto semplice, rispondeva Agnini, che rivolto a quelli dell’impresa affermava:
“Voi avete nel nostro comune, anzi proprio a Finale, lavori di ben maggiore
importanza che dovreste presto o tardi eseguire e per i quali non è stato fin
d’ora possibile combinare: la compagine che adesso esiste fra i braccianti, lo
spirito di sacrificio non vi lascia sperare sui soliti mezzi per ridurli al
dovere – o con la fame o comprando qualche caporione. Avete pensato: facciamo
venire degli operai forestieri con l’esca di lauti prezzi – qualcosa succederà.
Che importa delle conseguenze, purché si ottenga o lo scioglimento della
Associazione o l’arresto di coloro che voi ritenete indispensabili “mantenere
la compagine sociale?”.
Per Agnini non esisteva dubbio che lo scopo era
“di provocare conflitti”. E allora rivolto al Prefetto chiedeva: “Ella, Signor
Prefetto, che non ignora queste cose, per quale ragione anziché essere buon
padre di famiglia, anziché proteggere il debole, fa l’opposto ed impartisce ai suoi
dipendenti ordini così draconiani?”. “Forse è per tutelare more solito la libertà
del lavoro?”. “Ma diamine” si chiedeva Agnini, “come può Ella e chiunque, non
approvare l’intervento dei terrieri che, disoccupati, vedevano respinto il
prezzo che essi chiedevano, mentre uno maggiore se ne accorda ai braccianti
estranei?”76.
In pieno sciopero, Agnini dalle colonne del “Naviglio”,
al termine di un lungo articolo in cui esponeva la situazione, in tono
conciliante e mettendo innanzi anche un elementare principio di economia,
chiedeva ai possidenti: “Se invece di polenta, fagioli, cipolla e acqua, unico
cibo della gran massa dei nostri lavoratori, essi potessero mangiare qualche volta
nella settimana un po’ di carne, non ne aumenterebbero così il consumo?”. E
concludeva: “Signori! Io non farò appello ai vostri sentimenti di umanità”; “Vi
ricorderò soltanto, e non per intimidirvi, ma per ricondurvi alla realtà, le
parole che il 6 febbraio in un pubblico discorso pronunciava Francesco Crispi: Aiutiamo le più sventurate classi sociali,
prime che queste, con la violenza ti vengano davanti a reclamare ciò che hanno
il diritto di avere”77.
Ed ecco la nobile, generosa risposta del “Diritto
Cattolico” che, dopo aver spiegato le ragioni per le quali Agnini esigeva
troppo, si chiedeva: “che se queste non sono utopie socialiste quali saranno desse?”.
“Prima di tutto” specificava meglio il giornale cattolico, “sarebbe mestiere,
per soddisfare l’umanitario desiderio dell’Agnini, che i possidenti della terra
si riducessero essi a mangiare solo la pura polenta; in secondo luogo se l’operaio
conseguisse anche il miglioramento del salario proposto, sarà più facile che lo
spenda in vino all’osteria, in giochi ed in visi ecc.”, invece che in carne per
la famiglia.
E con incredibile disinvoltura e sicumera
terminava dichiarando: “Noi siamo sicuri, si persuada il Signor Agnini, che le
sue teorie umanitarie, anziché giovare, nuoceranno agli operai di cui crede
patrocinare gli interessi, poiché ne conseguirli la diminuzione del lavoro, l’abbandono
delle aziende da parte dei proprietari, la sostituzione in vece loro di esosi affittuari…”78.
Intanto lo sciopero continuava e il fermento
aumentava allargandosi anche ad altre categorie di “giornalieri”.
Il 22 Aprile “Il Panaro” diede notizia che l’associazione
dei braccianti di Finale Emilia aveva sguinzagliato per le valli del comune,
squadre composte di donne e di uomini i quali invadevano i possedimenti e invitavano
gli operai a sospendere il lavoro sino a che non fosse stata realizzata la tariffa
salariale.
Le donne erano delle “roncatrici” le quali
avevano deciso di scendere in sciopero e per solidarietà coi braccianti e
specialmente per ottenere anche per la loro categoria un salario meno
indecente. L’azione delle roncatrici, a quanto risultò dal processo, fu
particolarmente decisa a volte anche violenta soprattutto nei giorni 18 e 19
Aprile.
Esse infatti invasero le campagne del finalese
e convinsero, altri dicono costrinsero le compagne a sospendere il lavoro e ad
unirsi a loro nello sciopero.
Per rimettere le cose a posto fu spedita la
truppa e un buon rinforzo di RR. Carabinieri che avevano l’ordine di procedere
anche ai necessari arresti. In conseguenza vennero arrestate 42 persone tra cui
il Presidente dell’Associazione Agnini e dieci donne.
Dal 20 al 29 Giugno 1887 si svolse davanti al
Tribunale di Modena il processo dei “braccianti di Finale Emilia”, processo
atteso e seguito con grande interesse dalla stampa e dalla popolazione. Lo
schieramento degli avvocati difensori risultava piuttosto imponente. Vi figuravano
i più bei nomi del foro modenese quali Ferrari, Marverti, Rivoli, Lollini,
Monteverdi e due dei più noti rappresentanti del foro italiano: il Prof. Cagliolo
dell’Università di Modena, e il già menzionato Prof. Ceneri dell’Università di
Bologna.
I 42 imputati sostennero in sostanza “di non
aver promosso od eccitato e di non aver usato violenze per costringere altri ad
operare contro la propria volontà” e che avevano scioperato sia perché erano pagati
poco, sia anche perché “sembra che una delle imprese facesse agli operai
forestieri migliori condizioni che ai finalesi”79.
Tra i testimoni dell’accusa il primo fu il delegato
di P.S. Scalfi Leopoldo, da undici mesi residente a Finale. La sua
testimonianza è tra le più preziose. Cominciò col dare informazioni dettagliate
sugli scioperi e tra l’altro disse che in un’occasione l’Agnini espresse la
persuasione che gli operai forestieri lavorassero forzatamente, perché
circondati da molti carabinieri ed agenti di P.S. Allora il teste si recò ad
interpellare ad alta voce gli operai i quali risposero che lavoravano
liberamente per guadagnare. L’Agnini però non se ne mostrò persuaso! Sempre
secondo il delegato, l’Agnini in una adunanza della società braccianti
disapprovò gli scioperi e disse pure che con le violenze non si otteneva nulla,
e il consiglio a soffrire la fame e a resistere.
Il Delegato Scalfi raccontò inoltre che gli operai
di altri paesi venuti a Finale per lavorare ne furono impediti dal contegno degli
operai finalesi. Sul fatto del 19 Aprile, riguardante le roncatrici, il teste
dichiarò che soltanto alcune donne si recarono ad impedire ad altre di
lavorare. Infine il delegato di P.S. non mancò di sottolineare che mentre lo
scopo apparente della società dei braccianti era quella di formare un fondo per
assumere imprese di lavoro ad utile comune, aveva però anche scopi politici.
Ma ciò che sorprese un po’ tutti e pubblico e
avvocati, fu il rapporto scritto che lo stesso delegato di P.S. di Finale aveva
inviato al Procuratore del Re, rapporto che venne letto in Tribunale. “In quel rapporto
Agnini vi era dipinto”, è “Il Panaro” che riferisce, “coi più foschi colori”,
fatto apparire “come un volgare ambizioso” e “per sentimento di ambizione
avrebbe seguito la squadra di Cavallotti a Napoli in soccorso dei colerosi,
dopo che un telegramma diceva non esservi più bisogno di volontari”.
“La lettura di questo, diremo così, strano
documento di acume e di sapienza poliziesca” produsse in tutto l’uditorio “la
più disgustosa impressione”; gli avvocati difensori si alzarono in piedi per
chiedere “spiegazioni all’autore di quel capolavoro”. “Agnini vivamente
commosso per dover passare sotto quelle poliziesche forche caudine non poté
frenare il pianto; l’udienza restò momentaneamente sospesa”. Così scrive il
corrispondente del “Panaro”, che faceva poi seguire commenti che acquistano particolare
significato, dato che “Il Panaro” non si era mostrato molto tenero verso i
disordini di Finale e di chi li aveva provocati. Ecco le parole testuali: “Gli
stessi avversari dell’Agnini in questo processo – e noi ne ricordiamo anche un
altro – riconoscono le sue qualità. Fosse stato più mosso da ambizione nel seguire
Cavallotti a Napoli, è sempre una nobilissima, ammirabile ambizione quella che
ci spinge ad arrischiare la vita per salvare quella degli altri.
Se pure è mosso da ambizione nel farsi
sostenitore delle più misere classi lavoratrici, affrontando, fin che durerà un
ordinamento legislativo imperfetto, le persecuzioni poliziesche e le noie e le
spese dei processi come l’attuale, converrà sempre riconoscere che questa è una
nobile ambizione”.
E concludeva con evidente disgusto: “Bisogna
aver perduto il senso retto delle cose per giudicare un uomo, un cittadino con
criteri tanto partigiani, ed è deplorevole che da un pubblico funzionario si
scrivano rapporti che sembrano articoli del Rabagas!”80.
Sempre per l’accusa furono chiamati a testimoniare
il Sindaco di Finale, il Cav. Bortolazzi Giuseppe e il rappresentante dell’Impresa
Laschi, Sig. Cuccola.
Il Sindaco Bortolazzi diede buone informazioni
sulle qualità morali di Agnini, ma dichiarò pure che l’opposizione dei
proprietari non derivava tanto dalle tariffe eccessive, quando dal fatto che
esse volevano essere imposte.
Richiesto se la tariffa stabilita agli operai
fosse giusta, il Sindaco affermò di non poter dare un preciso giudizio in
proposito. Ammise invece che l’Amministrazione Comunale aveva dato in appalto
una strada a condizioni più onerose di quelle che prima delle aste andate
deserte pareva offrire l’Agnini per la società.
Il Cuccola disse che Agnini si era molto
adoperato per stabilire la concordia fra l’impresa e i lavoratori. Il lavoro della
strada, a cui aveva fatto cenno il Sindaco, fu assunto dalla stessa impresa
Laschi, chiamata dal Municipio. Il Sindaco, interrompendo, affermò che tale
chiamata non fu fatta ufficialmente81.
Fu quindi la volta dei numerosi testimoni per
la difesa.
Tra questi Barbieri Clemente, caposquadra dei
braccianti di Dogaro, riferì che aveva stipulato con l’impresa Bertelli il
contratto a 32 cent. il metro secco (cioè senza detrazione di costruzione e
zollatura), e che tali furono le condizioni quando fu invitato a portarsi a
Finale; ma quando furono pagati furono trattenuti 2 cent. al metro cubo, sicché
il prezzo fu di 30 cent. Intese poi dire che l’impresa aveva voluto dare ai
braccianti di Finale 27 o 28 cent. al metro cubo, e perciò volle accettarsi,
dato che in caso fosse stato vero, sarebbe tornato subito a casa. Cercò quindi
un colloquio con Agnini.
Anche Calzolari Giuseppe disse che i Dogaresi
non lavoravano volentieri perché si ritenevano trattenuti dalla forza anche se,
dicevano, il delegato di P.S. aveva promesso di mandare il sabato o la domenica
un mastello di vino ed un suonatore: per farli divertire. Confermò d’aver visto
il delegato con Agnini che voleva parlare con il Barbieri. Il Delegato gli proibì
il colloquio sebbene Agnini si dichiarasse pronto a farlo anche in sua
presenza. Anzi a questo punto un carabiniere disse al teste: “Due passi
indietro e state al vostro posto”. Al che Agnini replicò: “Non siamo mica
austriaci per trattarci così”.
Le informazioni dei testimoni furono tutte
favorevoli ad Agnini, il quale, dicevano le testimonianze, aveva costantemente
raccomandato la calma e la temperanza e aveva cercato di stabilire dei buoni
rapporti tra possidenti e braccianti. Dopo di che le parti rinunciarono a
diversi testimoni.
Dalle varie testimonianze però emersero anche
altri fatti interessanti che “Il Panaro” non evitò di menzionare e commentare.
Per esempio che le roncatrici prendevano 60 cent. al giorno; che in genere gli
operai erano mal nutriti e mal alloggiati tanto che il proprietario Corradini
Vittorio raccontò che, mosso a compassione diede a vangare, in pieno inverno,
un pezzo di terra a una famiglia di tre persone. Andavano al lavoro alla
mattina alle 5 al lume della luna, tremando dal freddo, affermò il Corradini, e
si nutrivano soltanto con un po’ di gnocco e bevevano acqua.
Alcune famiglie poi, insisté il teste, non
avevano neppure un letto e dormivano come Dio voleva (“C’è proprio da farsi
meraviglia che succedano gli scioperi?” si chiedeva il corrispondente).
Dalle dichiarazioni dei testi risultò anche un
altro fatto assai importante e che cioè prima dell’esistenza dell’Associazione
le opere di campagna si pagavano secondo l’urgenza dei lavori, da 14 a 18
soldi, il giorno; per le segature il massimo era di L. 1,50. Istituita l’Associazione i salari
migliorarono alquanto.
Inoltre si apprese che dopo gli arresti dei
braccianti, la società operaia M.S. di Finale aveva votato un ordine del giorno
che stabiliva di aiutare le famiglie dei braccianti, precisando che lo faceva
non solo per sentimento umanitario, ma anche perché non li considerava rei di
alcun delitto82.
Terminato l’interrogatorio dei testimoni
cominciarono le arrighe. Sono tutti discorsi per una ragione o per un’altra di
notevole interesse, e di per sé documenti preziosissimi per quegli anni.
Esordì il P.M., Avv. Chiaramella, il quale
sorprese tutti con certe “coraggiosissime” affermazioni. Ovviamente dipinse
l’Associazione braccianti a colori foschi e chiamò il comitato direttivo a una
raccolta di cinque teste di legno che si lasciavano menare pel naso dall’Agnini.
Del resto, disse il P.M. quella società era nata dal disordine e produttrice di
disordini, perché fu pensata dall’Agnini quando si rese conto che nella classe alla
quale naturalmente apparteneva non era nulla, mentre datosi alla classe operaia
era tutto. Perfino esaminando i fatti uno per uno il P.M. con ispirato acume
trovò e pretese di dimostrare che mentre Agnini predicava la calma a parole,
sottomano eccitava agli scioperi e alla resistenza.
Travolto dal fervore il P.M. difese il delegateo Scalfi e il suo rapporto e concluse con una amenità insuperabile. Infatti per
provare l’imparzialità del testo Bartolazzi il P.M. fece notare che sebbene il
Sindaco avrebbe potuto far molto male all’Agnini con cattive informazioni, non
aveva detto una sola parola contro di lui!
I difensori a questo punto interruppero l’equilibrista
gridandogli che il Sindaco non poteva fare altrimenti se non calunniando, di che
non era capace.
Primo fra i difensori parlo l’Avv. Erminio
Ferrari. Interrotto spesso da “applausi del pubblico repressi a fatica dal
presidente”, il Ferrari si disse toccato dalla penosa impressione che gli
fecero le parole del P.M., parole che risuonarono ancora più aspre in quanto
che accentuavano uno strano contrasto con l’animo mite di quel magistrato.
Rivolto agli imputati “in una apostrofe tenera quanto vivace” li esortò “alla
fede della santità del lavoro e dell’imparzialità della magistratura”. “E Dio
sa quanto ce ne fosse bisogno”, aggiungeva “Il Panaro”.
Infine rivolto agli uomini del Tribunale disse:
“Guardate allo statuto di quella società: pensate al diritto di associazione
che è garantito a tutti i cittadini dalle leggi vigenti – riflettete che il
lavoro libero è la genesi più legittima della proprietà – meditate che dal
lavoro schiavo si discende alla proprietà furto e poi pronunciate la vostra
sentenza che io son certo, sarà l’espressione della Vostra coscienza e della
Vostra giustizia”83.
Prese quindi la parola l’avv. Cagliolo, Professore
di diritto all’Università di Modena, la cui difesa venne definita dal Panaro “splendida”
e di “rara efficacia”, non per “la ricerca di frasi a sensazione”, ma per “la
profondità delle dottrine scientifiche”, per “l’acutezza delle osservazioni
giuridiche, esposte con la serenità d’un uomo, che al di sopra delle passioni,
pone il culto della verità e della giustizia84.
L'oratore dimostrò che mancavano addirittura
gli elementi giuridici dei reati imputati, e rivolto al P.M. disse che al suo
posto avrebbe chiesto la parola per ritirare l’accusa. Infatti affermava, come
si poteva parlare di “istigazione allo sciopero” se non vi era stato “sciopero
nel senso della Legge?” (In ogni caso sostenne l’avv. Cagliolo, sarebbe
antigiuridico fare dello sciopero e delle minacce due distinti capi d’accusa).
E dopo aver dimostrato insussistenti in fatto e in diritto le minacce e la
violenze, l’oratore disse: “Se il P.M. vuole accusare di un reato, accusi gli
operai del reato di lamento, e l’Agnini del reato di calma”.
Il Cagliolo terminò facendo uno splendido
elogio al carattere, al cuore dell’Agnini e chiese per tutti l’assoluzione per
inesistenza di prove.
La fine “della dotta, eloquentissima arringa”
fu salutata da vivissimi applausi.
Gli avvocati Monteverdi, Rivaroli e Lollini
mantennero le loro difese su un piano del tutto “locale”, ma non per questo
furono meno appassionate e istruttive. L’avv. Monteverdi arrivò perfino ad affermare
che “i parassiti della moderna società sono due: gli usurai e gli appaltatori”.
“I primi conducono il popolo alla miseria”, gli altri “mercanti dell’opera altrui”,
“lo riconducono alla fame”. L’Agnini secondo Monteverdi era almeno meritevole
d’una corona civica, perché protettore della plebe e della sua moralità.
L’avv. Rivaroli si dichiarò anzitutto “la voce
del suo paese” contro le accuse portate agli imputati. Descrisse quindi l’ambiente
in cui si svolsero i fatti, ambiente saturo di elettricità, prodotto
specialmente da ingiustizie locali (ed accenno al fatto della costruzione di
una strada concessa dal Municipio all’impresa Bertelli).
Passò quindi a fare un confronto fra lo statuto
delle associazioni dei braccianti di Finale con quello di Ravenna, dove l’associazione
era sussidiata dallo stesso Capo dello Stato
L’Avv. Lollini dedicò la sua difesa soprattutto
alle roncatrici e dopo molte “considerazioni di ordine filosofico, politico,
giuridico” chiuse dicendo che era impossibile una sentenza di qualsiasi
condanna.
L’arringa più appassionata e poetica la
pronunciò naturalmente Cesare Marverti che subito all’inizio non mancò di
dichiarare con estrema franchezza d’essersi associato alla difesa per omogeneità
di principi coll’imputato Agnini, del quale approvava e condivideva le nobili ambizioni.
Il Marverti passò poi a difendere la causa
delle roncatrici e terminò accennando a parecchi fatti che legittimavano il
sospetto dell’intervento della polizia ai processi di quel genere.
“In questo processo” affermava il Marverti, la
prova c'era e chiara nelle parole dello stesso Pubblico Ministero, che aveva
dichiarato: “bisognerà frenare gli abusi nell’avvenire: spero che l’associazione
dei braccianti finalesi sparisca, anzi sparirà”85.
Fu quindi il turno dell’avvocato Prof. Ceneri,
che pronunciò un’altra delle sue brillantissime arringhe.
“A parer mio, e spero anche a parer vostro,
signori del Tribunale, nulla rimane dell’accusa. Potrei rinunciare la parola,
ma mi sembra di mancare a voi di riverenza e di rispetto”. Così esordi il Prof.
Ceneri che venendo a parlare direttamente del processo ne seppe sintetizzare l’atmosfera
con queste parole: “lo generò l’egoismo, la paura; l’esagerazione è l’altrice;
reggitore, maestro e duce, un falso deplorevole zelo”. Passò quindi a
riassumere i fatti e le varie interpretazioni. E il fatto principale secondo il
Ceneri, era uno e semplice: “Lo scoppio della fame, istintiva espansione di un
bisogno che domina quella povera gente, e si sottopone a diversi articoli del
Codice Penale, e si conduce in una selva aspra e forte”. Per uscirne bastava un
po’ di logica. Il P.M. aveva affermato per esempio che tutti i braccianti finalesi
avevano minacciato quelli venuti di fuori. Su che basava il P.M. questa
asserzione? In ciò che avevano dichiarato il delegato di P.S., il brigadiere e
tre carabinieri.
“Ma a queste deposizioni”, sostenne il Ceneri, “non
si poteva dare grande importanza perché essi non per malanimo, ma per tendenza dell’animo,
dovevano essere spinti a dare ai fatti un colorito esagerato”.
Ma ammesso pure che vi fossero state minacce,
non poteva essere stata questa la ragione principale per la quale i braccianti
forestieri avevano cessato il lavoro; evidentemente informati di come stavano
le cose, “levati dall’inganno in cui erano stati tratti dall’impresa non
vollero essere i carnefici dei loro fratelli”. Il P.M. non vuole persuadersi,
insistette il Ceneri, come gli operai forestieri potessero abbandonare il
lavoro per far piacere ai finalesi, ma non si vorrà negare il sentimento, lo
spirito di solidarietà, perché si tratta di povera gente!”.
Venendo a parlare della complicità di Agnini,
il Ceneri ebbe una battuta veramente degna della sua fama: “Col vostro talento
e col vostro animo – disse rivolgendosi al P.M. – fate male a prendere per
falsariga il rapporto di un delegato di P.S.!”.
Entrando poi dentro nei fatti, l’oratore rifiutando
ogni ulteriore disquisizione, con una sincerità quasi brutale affermò: “Io vedo
lo scopo. Si vuol colpire l’Agnini che non fu colpito dal precedente processo e
non per odio della sua persona, ma perché egli è la vita della società che si
vuol mettere a morte! Tutti gli altri accusati mi fanno l’effetto del coro delle
tragedie greche: l’Agnini ne è il protagonista”.
Avviandosi verso la conclusione l’arringa dell’illustre
avvocato si fece sempre più serrata e precisa. “I poveri carriolanti non
pretendevano che 30 o 32 cent. al metro corrispondenti ad una media giornaliera
di circa L. 1,50. Senza essere pratici dei lavori, ma delle condizioni della vita,
ben si comprende che questa mercede basta appena per vegetare più che vivere”.
“Si dice che i capitalisti appaltatori sono
gravati da spese e devono per forza limitare le mercedi”; ma questo, osservava
il Ceneri, era caso mai una conseguenza di un sistema assurdo in cui i grossi
imprenditori si facevano prima la guerra nelle aste, poi ricorrevano ai
subappaltatori, e tutti si rifacevano poi “sulle bracce dei lavoratori”.
Ad ogni modo se si ritenevano eccessive le
mercedi richieste dai finalesi, come “si assicurarono ai forestieri 1,80 e 2
lire?”. “Ciò significa” commentava il Ceneri senza sottintesi “che vi era della
cattiveria contro gli operai finalesi e si agiva cosi con proposito deliberato”.
È nella conclusione però che il Ceneri si rivelò
ancora una volta l’uomo che vedeva e comprendeva con perfetta chiarezza i
problemi del tempo, che sentiva profondamente le colpe e le responsabilità degli
uomini della sua generazione. Ed esprimeva il tutto in maniera superba. Vale la
pena perciò di leggere per intero il finale della sua arringa così come ci è
stata riferita dal “Panaro”: “Nella fausta rivoluzione, noi tutti, uomini della
rivoluzione, abbiamo commesso il grosso peccato di non esserci troppo occupati
delle classi povere. Si sono fatte belle professioni di fede e di principii
astratti, ma non siamo entrati nelle viscera della società, non siamo andati
alle origini dei mali. Abbiamo con la scienza spezzata la catena che
congiungeva il cielo alla tetra, e nulla surrogato. La vecchia fede è morta, la
fede nuova si siede sulle labbra, non ha ancora preso possesso dei cuori.
Si sono fatte delle inchieste, e quelle pagine
ci commuovono, ma lasciamo che tante povere creature vivano in miserabili
tuguri, ove spesso non hanno neppure un tozzo di pane”86.
Prima di concludere il Ceneri citò un brano di
un discorso di Berrier, legittimista e conservatore, che propugnava la libertà
delle transazioni fra capitalisti e lavoratori, la domanda della libertà e
della offerta e non approvando le trattative dirette perché i più deboli si sarebbero
trovati alla mercé dei forti, invocava la provvidenziale istituzione di società
che rappresentassero gli operai.
Il Prof. Ceneri terminò quindi il suo discorso
chiedendo l’assoluzione di tutti gli imputati. Alla fine, afferma “Il Panaro”. “Scoppiarono
nella sala vivissimi applausi tollerati dal presidente per deferenza all’illustre
professore”.
Non restava che attendere il verdetto del
Tribunale e il giorno successivo (28 Giugno) “all’una precisa il Tribunale entrò
nell’aula affollata da numeroso uditorio”.
Si notavano pur “parecchie guardie di P.S.
vestite in borghese, delegati e carabinieri”. Il Presidente lesse la sentenza.
Per alcuni imputati fu di assoluzione per “inesistenza di reato”, per altri,
riconosciuti “colpevoli del reato di minacce” la condanna da un mese a tre mesi
di carcere e a multe che andavano da 30 a 51 lire.
Gregorio Agnini fu dichiarato “colpevole
dell’imputazione di cui nel capo V riguardo agli scioperi in conformità al capo
III delle imputazioni” e condannato a tre mesi di prigione.
“Il Panaro” fece seguire un commento laconico: “Giovanni
da Leida – come eruditamente il delegato Scalfi chiamò l’Agnini – è stato condannato.
Il delegato Scalfi è soddisfatto, ed anche per questa volta Finale e l’Italia
sono salvi”. E aggiungeva che la sentenza non aveva fatto buona impressione nel
pubblico, e che tutti i condannati avevano interposto ricorso in appello87.
Da Finale il corrispondente del Panaro scrisse
che la sentenza emanata dal Tribunale a carico del Sig. Gregorio Agnini e
braccianti finalesi aveva prodotto “una dolorosa impressione in tutti gli animi
onesti, senza distinzione di partito”.
La sera del 29 Giugno alle 6,12 giunse a Finale
il treno con Agnini ed i braccianti. Alla stazione c’erano “numerosissimi
operai e amici di Agnini”; ma non fu fatta nessuna clamorosa dimostrazione “giacché
troppo eloquente era la mestizia che leggevasi sui volti di tutti”, e d'altra parte
“era corsa la parola d’ordine di astenersene per non compromettere e per non
dare la soddisfazione all’ormai famoso delegato Scalfi, di procedere ad
arresti, di cui aveva già espresso pubblicamente la intenzione”.
“La temperatura del paese è calma, concludeva
il corrispondente, gli operai tranquilli nella fiducia che la loro cause non può
che essere coronata da buon successo”88.