venerdì 6 giugno 2014

Frammenti geminiani
Mezzo secolo fa* giungeva nella nostra città un allampanato signore biondiccio, con due occhietti vivaci e impenetrabili dietro due spesse lenti da miope, e dall’accento spiccatamente partenopeo.
Niente di strano: forse un turista od un agente di commercio. Lo strano accadde in seguito, quando, costui, salito sulla carrozzella, disse al cocchiere di accompagnarlo al… pulpito di Cicerone e cioè alla passeggiata archeologica cittadina.
Il vetturale spalancò gli occhi, fece un verso espressivo e ribatté franco e deciso che quella via a Modena non esisteva o, per lo meno, aveva cambiato nome da molti anni.
Il turista, convinto di essersi spiegato male, chiarificò che non era una via quella che cercava, bensì una torre dalla quale Marco Tullio Cicerone aveva arringato la folla.
Il vetturale dichiarò bellamente che andasse a far fesso qualche altro e ne nacque un alterco tanto che il disgraziato turista, in seguito ad una contestazione di un agente che lo trovò sprovvisto di documenti, fu accompagnato in… Questura.
Il fatterello destò scalpore in città: ne parlarono i giornali e si commentò per lungo tempo nei caffè.
Non sappiamo come se la cavasse il pover’uomo con il commissario di Pubblica Sicurezza, comunque egli aveva perfettamente ragione e con la sua richiesta non intendeva gabbare nessuno. Fino alla fine del secolo scorso una leggenda modenese di pubblico dominio narrava che Marco Tullio Cicerone, trovandosi di passaggio per l’antica città romana, capitale di una fiorente colonia, avrebbe tenuto una pubblica concione nella contrada dei Tre Re.
Leggenda, naturalmente, senza alcun fondamento storico, e nata dalla fantasia di qualche studioso tipo l’avvocato Fregni, che, come i vecchi modenesi sanno, provò che la Ghirlandina era un avanzo di piramide egiziana.
Nei Tre Re esisteva effettivamente, fino al principio del secolo scorso, una costruzione quattrocentesca, al centro della quale si apriva una finestra ogivale, la quale veniva denominata “pulpito di Cicerone”.
In verità di trattava di una costruzione sorta sulle fondamenta di una torre romana. L’ambone dal quale Cicerone avrebbe arringato la folla era ricavato da un antico sarcofago adattato a balcone del palazzo. Quando il piccone risanatore lo demolì il dottore Filippo Caula comperò i rottami per costruirsi una villetta nel sobborgo di San Cataldo. Demolì anche il sarcofago-ambone ma riparò, a modo suo, facendo apporre sulla facciata della villetta un’astrusa epigrafe latina che non soddisfece nessuno. Ne diamo la traduzione:
Quantunque un dì fossi mozza, giungevo al cielo; ora sono un’umile casetta ma adatta a chi mi possiede; ammaestrata dai miei casi, mi allieto della mia sorte. Alta potevo precipitare, piccola lungamente vivrò”.
Del pulpito ciceroniano nemmeno un cenno. Così finì una leggenda.
*
Quando Francesco V se ne andò definitivamente dalla capitale del suo regno portando seco i più fedeli soldati della guarnigione, una parte della cittadinanza mise il lutto. Molti lo portarono fino alla tomba, sempre sperando nella restaurazione.
I “duchisti” divennero una pacifica fazione cittadina che si ritrovavano nella libreria di Andrea Rossi o in quella di Luppi, sotto i portici del Seminario Vecchio.  Ai “Quattro Ladri”, antica farmacia sotto il Portico del Collegio, si davano convegno gli ex alti ufficiali dell’esercito ducale, fra i quali il più noto era il colonnello Carandini, comandante delle artiglierie ducali.
Bella figura di ufficiale, fedele alle sue idee, non aveva dimenticato i bei tempi quando poteva sfilare per le vie della città coi suoi tre bei cannoni lucenti, trainati dai migliori cavalli della scuderia ducale.
Un giorno, ormai vecchio ma non per questo meno “duchista”, trovavasi a passare nei pressi dell’ex Palazzo Ducale, quando gli capita tra i piedi un ragazzino il quale, distratto, gli pesta un piede.
Il vecchio colonnello si agita e irato gli grida: “Sai chi sono io? Sono il comandante delle artiglierie del Duca”.
Il ragazzino, colto alla sprovvista, lo guarda e gli risponde: “Mettimi in prigione se sei capace, colonnello del duca Passarèin”. Il vecchio colonnello, toltosi di tasca uno scudo, glielo allungò dicendo: “Hai ragione, monello. Grazie della lezione”.
Il fatterello si riseppe. I liberali sorrisero soddisfatti e i duchisti chiesero al colonnello Carandini il perché di quella umile risposta. “ša vlì-v? – rispose il colonnello – l’è stè óna rašonèda giósta ch’l’éra pchè guastèrla. Al m’à insgnè che fin a incô a sùn stè ‘na pitòca!”. E dal quel giorno il colonnello dimenticò le sue pose granguignolesche.
Laerte

*(articolo de La Gazzetta dell’Emilia, 1945)

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