Frammenti geminiani
Mezzo secolo fa* giungeva nella nostra città un allampanato
signore biondiccio, con due occhietti vivaci e impenetrabili dietro due spesse
lenti da miope, e dall’accento spiccatamente partenopeo.
Niente di strano: forse un turista od un agente di commercio.
Lo strano accadde in seguito, quando, costui, salito sulla carrozzella, disse
al cocchiere di accompagnarlo al… pulpito
di Cicerone e cioè alla passeggiata archeologica cittadina.
Il vetturale spalancò gli occhi, fece un verso espressivo e
ribatté franco e deciso che quella via a Modena non esisteva o, per lo meno,
aveva cambiato nome da molti anni.
Il turista, convinto di essersi spiegato male, chiarificò che
non era una via quella che cercava, bensì una torre dalla quale Marco Tullio
Cicerone aveva arringato la folla.
Il vetturale dichiarò bellamente che andasse a far fesso
qualche altro e ne nacque un alterco tanto che il disgraziato turista, in
seguito ad una contestazione di un agente che lo trovò sprovvisto di documenti,
fu accompagnato in… Questura.
Il fatterello destò scalpore in città: ne parlarono i
giornali e si commentò per lungo tempo nei caffè.
Non sappiamo come se la cavasse il pover’uomo con il
commissario di Pubblica Sicurezza, comunque egli aveva perfettamente ragione e
con la sua richiesta non intendeva gabbare nessuno. Fino alla fine del secolo
scorso una leggenda modenese di pubblico dominio narrava che Marco Tullio
Cicerone, trovandosi di passaggio per l’antica città romana, capitale di una
fiorente colonia, avrebbe tenuto una pubblica concione nella contrada dei Tre
Re.
Leggenda, naturalmente, senza alcun fondamento storico, e
nata dalla fantasia di qualche studioso tipo l’avvocato Fregni, che, come i
vecchi modenesi sanno, provò che la Ghirlandina era un avanzo di piramide
egiziana.
Nei Tre Re esisteva effettivamente, fino al principio del
secolo scorso, una costruzione quattrocentesca, al centro della quale si apriva
una finestra ogivale, la quale veniva denominata “pulpito di Cicerone”.
In verità di trattava di una costruzione sorta sulle
fondamenta di una torre romana. L’ambone dal quale Cicerone avrebbe arringato
la folla era ricavato da un antico sarcofago adattato a balcone del palazzo.
Quando il piccone risanatore lo demolì il dottore Filippo Caula comperò i
rottami per costruirsi una villetta nel sobborgo di San Cataldo. Demolì anche
il sarcofago-ambone ma riparò, a modo suo, facendo apporre sulla facciata della
villetta un’astrusa epigrafe latina che non soddisfece nessuno. Ne diamo la
traduzione:
“Quantunque un dì fossi
mozza, giungevo al cielo; ora sono un’umile casetta ma adatta a chi mi
possiede; ammaestrata dai miei casi, mi allieto della mia sorte. Alta potevo
precipitare, piccola lungamente vivrò”.
Del pulpito ciceroniano nemmeno un cenno. Così finì una
leggenda.
*
Quando Francesco V se ne andò definitivamente dalla capitale
del suo regno portando seco i più fedeli soldati della guarnigione, una parte
della cittadinanza mise il lutto. Molti lo portarono fino alla tomba, sempre
sperando nella restaurazione.
I “duchisti” divennero una pacifica fazione cittadina che si
ritrovavano nella libreria di Andrea Rossi o in quella di Luppi, sotto i
portici del Seminario Vecchio. Ai
“Quattro Ladri”, antica farmacia sotto il Portico del Collegio, si davano convegno
gli ex alti ufficiali dell’esercito ducale, fra i quali il più noto era il
colonnello Carandini, comandante delle artiglierie ducali.
Bella figura di ufficiale, fedele alle sue idee, non aveva
dimenticato i bei tempi quando poteva sfilare per le vie della città coi suoi
tre bei cannoni lucenti, trainati dai migliori cavalli della scuderia ducale.
Un giorno, ormai vecchio ma non per questo meno “duchista”,
trovavasi a passare nei pressi dell’ex Palazzo Ducale, quando gli capita tra i
piedi un ragazzino il quale, distratto, gli pesta un piede.
Il vecchio colonnello si agita e irato gli grida: “Sai chi
sono io? Sono il comandante delle artiglierie del Duca”.
Il ragazzino, colto alla sprovvista, lo guarda e gli
risponde: “Mettimi in prigione se sei capace, colonnello del duca Passarèin”.
Il vecchio colonnello, toltosi di tasca uno scudo, glielo allungò dicendo: “Hai
ragione, monello. Grazie della lezione”.
Il fatterello si riseppe. I liberali sorrisero soddisfatti e
i duchisti chiesero al colonnello Carandini il perché di quella umile risposta.
“Cùša vlì-v? – rispose il
colonnello – l’è stè óna rašonèda giósta
ch’l’éra pchè guastèrla. Al m’à insgnè che fin a incô a sùn stè ‘na pitòca!”.
E dal quel giorno il colonnello dimenticò le sue pose granguignolesche.
Laerte
*(articolo
de La Gazzetta dell’Emilia, 1945)
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